Il significato di ‘Dakota’

Ogni esperienza nella mia vita diventa un’ opportunità. Soprattutto le più significative.

In uno dei miei innumerevoli viaggi negli stati uniti ho avuto il grandissimo piacere di incontrare una persona che mi ha insegnato a sentire il profumo di una terra. Quel viaggio mi ha cambiata profondamente.

Quest’uomo molto più grande di me mi introdusse nell’affascinate cultura dei nativi americani. 

Non sapendo pronunciare bene il mio nome, cosa che mi faceva sorridere ogni volta, iniziò a chiamarmi Dakota. 

Mi spiegò che si trattava di un nome femminile tipicamente statunitense e che chiamare la propria figlia, con questo nome era una forma di rispetto nei confronti di questa popolazione. 

Nella lingua syoux il termine significa ‘amico’. 

Ne fui onorata, soprattutto quando mi elencò i motivi per cui secondo lui ero adatta a quel nome.

Mi disse che ero solare, forte e intraprendente.

Più tardi mi informai sul significato di questo nome navigando nel web. 

La donna Dakota è una persona che sa bene quello che vuole. In ambito affettivo è una fuggitiva, ha un po’ timore dei legami stabili tuttavia è molto solidale con i più deboli e puoi contare sempre su di lei.

“I’ m different I wear Dakota”  

non è uno slogan commerciale, in realtà esclamai questa frase mentre ammiravo la maestosità del parco nazionale del  Gran Canyon e mi riferivo al nome

Ricordo bene quel momento, per la prima volta mi sentivo davvero Dakota. 

Essere diversa non è semplicemente un modo di dire, un’espressione che spesso si riduce ad un alibi per sentirsi bene con se stessi. 

Quel giorno capii che essere diversi è un gesto, un atto di coraggio da fare verso noi stessi per liberarci degli standart che la società ci impone. Ma anche verso l’altro, è molto importante accettarsi quanto accettare la diversità altrui.

L’evoluzione nasce proprio dalla diversità.  

Sentirmi diversa in quell’istante fu una liberazione. E lo ero davvero, ero libera, indossavo un altro nome.

Ho voluto ricordare a me stessa la sensazione di quel viaggio che è esattamente quella che provo ogni volta che creo un capo.

Curiosità sul logo

La cosa che mi hanno chiesto più spesso dopo che ho lanciato il mio brand, è il motivo del logo di Dakotawear. Un toro potrebbe sembrare un’idea bizzarra per rappresentare un marchio di moda femminile, e la risposta forse bizzarra lo è davvero.

È perché sostengo che la tenacia, l’intraprendenza e un po’ di sfrontatezza portino al successo? (no ma lo penso)

Forse perché il toro è il mio segno zodiacale? (no ma lo è)

Magari mi ritengo una persona ostinata, una che infuria, una che per vincerla deve solo succedere che sia lei a concedertelo? (no ma lo sono)

O magari sono soltanto una fan sfegatata dei Chicago Bulls, follemente innamorata di Michael Jordan? 

Beh, io… ☺️❤️♉

 

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L’arte dell’anima-DakotaWear

Tutte le volte che mia mamma termina un lavoro si allontana con la sedia dalla macchina da cucire, prende il capo tra le mani e inizia ad esaminarlo.

Il vaglio ha un suo ordine preciso, ben scandito da espressioni che conosco bene. Sguardo attento, labbra protese verso l’interno, testa alta. 

Io la osservo poco distante, impaziente di ricevere un cenno, il solito: un gran bel sorriso compiaciuto.

Euforia che quel giorno tardò ad arrivare.

Decido di violare quell’interminabile silenzio, “che succede? Le chiedo.

A quel punto alzò lo sguardo verso di me, metro a nastro attorno al collo e una serie di spilli appuntati qua e la sulla maglia. 

“Non mi convince” sentenziò.

Aveva ragione, come sempre del resto. Avevo disegnato delle giacche in denim ma il risultato finale era poco armonioso.

Mi aveva avvertita che le proporzioni che avevo immaginato potevano rivelarsi un rischio, tuttavia avevo deciso di provarci lo stesso.

La mia prima reazione fu di panico. La seconda ve la risparmio. La terza, che solitamente è sempre la migliore, almeno per me, mi ha riportata all’assennatezza. 

Ricordo che mi equipaggiai di tutto punto, come ogni volta che sono chiamata alle armi. Mi munii di airpods, musica e buio totale. 

Quello era il mio momento. Questa volta fu mia mamma a capire che non poteva essere violato.

Ero al buio già da una ventina di minuti, cercando di riportare la mia attenzione sul problema, ma senza successo. Le mie riflessioni in quel momento spaziavano tra il cibo, l’ultima scena della serie tv di Netflix , che mi aveva lasciata senza parole, la voglia di andare in vacanza e le diverse destinazioni che avrei voluto visitare. Tutto, tranne quello a cui avrei dovuto pensare. Concentrazione zero.

Mentre fluttuavo in quella disordinata contemplazione mi venne in mente la tazza rotta di Ashikaga Yoshimasa.

Il kintsugi, letteralmente “riparare con l’oro”, è un’antica pratica giapponese che consiste nella riparazione di oggetti usando il prezioso metallo per saldare assieme i frammenti.

La leggenda narra che tutto sia iniziato proprio grazie alla tenacia di Ashikaga che non voleva rinunciare alla sua tazza preferita.

Uno spiraglio di luce nella totale confusione. Ispirandomi alla sua determinazione decisi di provare a cambiare prospettiva e guardando meglio mi resi conto che in effetti quello che avevo difronte a me non era un fallimento, ma un’occasione.

Iniziai a riparare il danno. Come ? Con il caos naturalmente. Strappai, tagliai, ricomposi. 

Richiamai mia mamma per mostrargli il progetto.

“Sei folle” mi disse,  un secondo dopo era al tavolo da lavoro. Sicura e veloce, le sue mani tra l’ago e il denim attente a non farlo incastrare. In un paio di ore aveva già finito.

Questa volta il cenno non tardò ad arrivare.

Il risultato fu sorprendente e proprio come per la ceramica frantumata la casualità con cui nel mio caso il denim si fonde alle riparazioni rende ogni pezzo unico e irripetibile. Cosi la rottura di un oggetto non ne segna più la fine.

Quel giorno creammo il completo Kokoro.

Avevo deciso di non rivelare il background di questa vicenda perche’ per quanto i fatti si svolsero come descritto mi mancava qualcosa per condividerlo. E fu solo dopo il mio incidente che trovai il nesso.

Dopo aver osservato la mia ferita mutare nei giorni presi coscienza del kintsugi.

Quest’anno poco prima di Natale ho avuto un incidente. Sono caduta dalla mia bici, Jordan, e mi sono fratturata il piatto tibiale.

Operata d’urgenza e costretta all’immobilizzazione per svariati mesi ho potuto sperimentare su me stessa l’effetto di un trauma.

Ho scoperto il potere di una cicatrice. Un varco tra il mio corpo e la mente. L’essenza della resilienza, la pazienza di saper aspettare e soprattutto di saper accogliere il danno. Perché è tutto lì il segreto, non possiamo cambiare le cose ma possiamo reagire o subire.  

La mia pelle stava diventando ogni giorno più preziosa.

Era come se guarendo stesse riparando il trauma fisico e quello intrinseco.

Era come se fossi la tazza rotta e allo stesso tempo l’artigiano, solo io potevo aggiustarmi e rendermi unica attraverso le trame della frattura.

Ora Kokoro ha un significato diverso per me. Intanto non rappresenta più un errore che avevo timore di rivelare ma la mia personale arte del kintsugi. 

Spero che questo post sia d’ispirazione per tutte quelle persone che si sentono a pezzi.  Raccoglieteli, ricomponeteli e dategli un nuovo significato. 

Mi rendo conto che non è facile ma vi assicuro che non è impossibile. Possiamo trasformare i traumi in venature dorate. 

Il punto non è tanto il risultato quanto la rivoluzione. Combattere per accettare una tazza riparata piuttosto che arrendersi a  perderla per sempre.

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